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Un popolo e la sua storia

Press review | Edizioni Il Maestrale | Thu, 10 June 2004

Torna ´La civiltà dei sardi´ di Giovanni Lilliu. Si presenta solido, poderoso. Peso e stazza da pietra nuragica. Paragone non casuale, perché la ristampa del volume La civiltà dei sardi di Giovanni Lilliu è proprio una pietra miliare, anzi la prima pietra sulla quale è stata costruita la storia del nostro popolo. Dal paleolitico all´età dei nuraghi: un viaggio affascinante nelle radici, un esempio di letteratura archeologica, dove il rigore scientifico si sposa con pagine di alta narrativa.

Paradossalmente una grande romanzo di fantascienza: perché ricostruire il cammino dei sardi - ancorandosi alle scoperte, chiamando in aiuto altre discipline (geografia, antropologia, architettura), rivedendo teorie diventate obsolete, creando congetture, ipotesi - è come immaginare un mondo che non c´è. Un mondo che ha lasciato i suoi segni, e con questi ha comunicato con noi, non con la scrittura che non possedeva. Una civiltà profondamente evoluta, che ha marchiato i sardi fino ad oggi. Il risultato del lavoro di Lilliu è un´opera fondamentale, uno di quei libri che resta, una bussola per navigare nella storia sarda, soprattutto in quegli anfratti lontani millenni che restano ancora immersi nel buio. Il professore, accademico dei Lincei, fresco fresco dei novant´anni è reduce dalla passeggiata mattutina. Una fastidiosa artrosi lo tormenta ma non gli impedisce di essere attivo: legge, commenta, scherza. I piccoli occhi guizzanti sempre curiosi sulle cose del mondo e della Sardegna. Occhi che si illuminano quando prende in mano il volume La civiltà dei sardi, ancora odoroso di tipografia.

- Professore, che effetto fa vedere quest´opera in una nuova ristampa?

´Grande piacere. Ancor di più perché stavolta c´è un editore sardo´.
Cosa le ricorda ? ´Una gran fatica. Che nasce con l´edizione del 1963, più magra di questa. Allora affrontare l´impegno di raccontare la storia di un popolo era molto rischioso. I materiali a disposizione, in quel momento, erano interessanti ma da interpretare. Soprattutto sentivo il bisogno di scrivere una sintesi sulla preistoria della Sardegna: esistevano studi e saggi ma su argomenti specifici, non uno sguardo d´insieme. Intendiamoci, c´erano gli straordinari lavori di Spano, Lamarmora, Pais, Taramelli ma serviva qualcuno che si prendesse l´onere di dipingere un quadro generale sulla civiltà dei sardi´.
Fu una decisione dettata quindi anche da una volontà divulgativa. ´Mi confortò il fatto che non ero l´unico a sentire questa esigenza. In quegli anni uscivano, in altre regioni italiane, libri di questo tipo. La civiltà dei sardi entrava dunque dentro un contesto preciso, non era il frutto d´una personale ossessione´.
Quale fu la sua prima preoccupazione nell´impostare il libro? ´Usare un linguaggio accessibile a tutti. Fare l´archeologo significa interpretare, basandosi su alcuni dati certi e poi interpretare ancora. Un lavoro di introspezione. Ecco perché nel libro ci sono molti ´se´ e ´ma´. Non ho la verità in tasca, anzi mai avuta. Quando ho sbagliato, ho avuto il coraggio dell´onestà, di rivedere alcune teorie. Se a distanza di anni le cose cambiano, se intervengono scoperte che aprono nuove vie, occorre fare marcia indietro´. Un esempio. ´Nel 1963 non c´era ancora il paleolitico e le tracce del neolitico erano poche. Sono fatti rilevanti che hanno modificato i percorsi archeologici´. Ma non hanno modificato la struttura del libro. ´La mia è l´archeologia di uno storico, non di un tecnico´.
Si spiega così anche l´esigenza di molte pagine squisitamente narrative. ´Certo. Ci sono brani di letteratura. E questo mi è stato rimproverato da alcuni. Secondo me, invece, sono le pagine più belle´. Quelle sul villaggio di Santa Vittoria di Serri, forse distrutto col fuoco dagli invasori romani, hanno grande forza poetica: concorda? ´Sono molto affezionato a quelle pagine. È la rappresentazione di un quadro, di come io pensavo fosse il santuario in quel momento, da una parte il sacro, dall´altra la vita laica. Lo stesso quando descrivo il villaggio di Barumini. Non c´è solo il nuraghe, questo grande edificio dall´aspetto militare, c´è il racconto quotidiano della vita civile della popolazione, la cucina, il forno, le usanze, eccetera. La civiltà dei sardi è il libro di un popolo attraverso i millenni´.
Millenni, appunto: cosa è cambiato tra il sardo di allora e quello di oggi? ´Morfologicamente molto poco. Abbiamo per esempio testa allungata e statura bassa. Dettagli che resistono nonostante le commistioni di oggi´.
E dal punto di vista psicologico? ´L´essere chiusi, sospettosi, diffidenti: tutto questo è rimasto. Perché è l´isola che forgia tali caratteri, infatti nel libro insisto sull´influenza dell´ambiente, della natura. Abbiamo ereditato dei valori che sono la forza di una cultura. Della nostra cultura´. Cosa ci hanno insegnati i nostri antenati? ´La dignità, la riservatezza. Non so se dire anche l´orgoglio. Quelli l´avevano, oggi mi sembra manchi. Si sente poco l´orgoglio di appartenere ad un popolo, di avere una propria lingua che ci identifica. I protosardi, per quanto fossero divisi in clan, in cantoni, e combattessero gli uni con gli altri, condividevano gli stessi valori, si sentivano uniti. Eppure le comunicazioni esistevano anche allora, le contaminazioni avvenivano ma non portavano a corruzioni: erano nuovi apporti che i sardi masticavano e poi digerivano. Oggi purtroppo contaminazione vuol dire assimilazione. Pensate alla televisione: un imperialismo, come quello delle dominazioni che si sono succedute in Sardegna´.
E quando è arrivata la perdita dell´indipendenza? ´La mia teoria è che fino al sesto secolo a.C. il popolo sardo è stato libero, poi sono arrivati i cartaginesi e da qui una serie di sconfitte´. E così nasce la ´costante resistenziale sarda´, che è sottolineata anche in questa edizione. ´La costante resistenziale nasce dalla sconfitta. Vuol dire che ogni sconfitta può essere riscattata. Vuol dire che ogni sconfitta patita contro gli invasori è stata una forma di resistenza. Non siamo un popolo di vinti. Dunque non siano morti, ma attenti: se perdiano certi valori, la scomparsa è certa. Il popolo sardo è vivo perché ha ancora la lingua´.
La lingua: altro argomento fondamentale. ´Mi rincresce notare che in questa campagna elettorale raramente, forse solo una volta, ho sentito la parola lingua. Ho l´impressione che non se ne tenga più conto. Evidentemente non sono ancora entrati nell´idea che se vogliamo essere un popolo con una identità, dobbiamo avere una lingua. Se muore la lingua, muore anche il popolo´.
Ma che lingua parlavano i nostri antenati? ´Il sardo dei nostri antichi è più o meno la lingua che parlano i baschi. Quello è un miracolo di sopravvivenza. Il sardo di oggi è la lingua che ci ha imposto Roma, e poi gli spagnoli. Ma molti temini della lingua nuragica sono rimasti´.
Che fare allora per la lingua? ´Magari un tv locale tutta in limba´.
E quale sardo usare? ´Tutte le diverse parlate. Sono una ricchezza, non una debolezza´. Quella dei protosardi era una grande civiltà? ´Sì, se consideriano il periodo. Durante l´età nuragica ci sono state straordinarie opere di ingegneria civile e religiosa, basta pensare al pozzo di Santa Cristina. La fase post nuragica è un altro momento splendido dove emerge il gusto per l´arte e per l´artigianato. Chi faceva queste cose apparteneva ad una grande civiltà. Che non aveva la scrittura´. Un popolo con una precisa identità: altra parola chiave per raccontare la storia dei sardi. ´Identità è una parola che se ne porta dietro un´altra: autonomia. Ma identità non è un concetto monolitico: è dialettica, movimento. È qualcosa di profondo. Oggi siano nella società dell´immagine, dello spettacolo, della mercificazione: la vera sfida è andare oltre le apparenza, oltre il folclore e capire il profondo significato delle cose´.

(Sergio Naitza)


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