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Il pescatore di memorie

Rassigna de imprenta | Il Sole 24 Ore | Dom, 7 Austu 2005
Fu Paul Valéry, mi sembra, ad affermare che il primo verso viene dallo spazio – dalla musa o dal Padreterno – e che al resto deve pensare il poeta. Per imitazione. L´attacco di Texaco, il romanzo con il quale il maritinicano Patrick Chamoiseau vinse in Francia il premio Goncourt (1992), non è propriamente un verso ma un suo equivalente poetico, e forse qualcosa di più. Una immagine in movimento. Potente, indimenticabile, fulminea. Una sassata che colpisce il Cristo, o qualcuno che gli somiglia, all´ingresso di una baraccopoli – Texaco, appunto – cresciuta, cellula dopo cellula, come un bosco di mangrovie radicato nelle acque dell´oceano, ai margini della città di Fort de France.
Difficile dire come siano andate le cose: «Per primo lo scorse Iréné, pescatore di squali. Poi Sonore. Ma tutti seppero della comparsa grazie a Marie-Clémence, una lingua ch´è davvero un telegiornale. A vederlo pareva uno di quegli agenti del moderno municipio, che distruggevano i quartieri popolari per trasformarli in civilizzate conigliere a fitto basso. Per questo si beccò forse la sassata e perse un po´ di sangue, che gli colava dalla guancia. "Ma chi aveva tirato la pietra?". Le risposte a questa domanda pullularono al punto che la verità vera ci sfuggì sempre. Ma la domenica sera degli anni bisestili ci capita di sospettare del più tremendo abitante di Texaco, Julot soprannominato La Rogna, che nulla teme eccetto il ritorno in vita della defunta madre».
Questo è il quadro e questi sono i personaggi al momento in cui si mette in movimento la storia. Che non è propriamente una storia ma un tramaglio – una rete – fatto di mille episodi che vanno dai tempi della schiavitù a oggi e che si dispiegano in contemporanea sul piano della memoria. Ed è questa – la memoria – la fonte, cioè "la Source", del suo vigore e della sua ragion d´essere. Ed è ciò che il personaggio di Marie-Sophie Laborieux, che questi episodi racconta all´Estensore-di-parole – cioè a Patrick Chamoiseau camuffato da Oiseau de Cham – , chiama a più riprese ´la Forza´. Qualcosa di magico (per dirla con gli africani) o forse di ontologico (per dirla nel linguaggio dei colonizzatori), che viene prima di qualsiasi cosa e che si esprime attraverso l´esercizio di una parola inedita. Cioè mai scritta, e però usata nelle piantagioni e nei mercati, sulle navi e tra i negri marron delle montagne. Il romanzo è preceduto da una tavola cronologica che indica i tempi esterni di quella che viene chiamata per convenzione la Storia ma che non ha niente a che vedere con la memoria dei suoi personaggi. In Martinica, come in tutte le isole dei Caraibi, il passato è solo un buco in cui si agitano i fantasmi avvelenati dello schiavismo. E la Storia – scritta altrove – è un manufatto di importazione, come la bandiera e tutta la civilisation. Come tutte le idee e le ideologie. E anche la lingua (in questo caso il francese) sul cui tronco l´ultima generazione di scrittori ha innestato il patois per dare adito a un modo di raccontare che faccia sopravvivere, dopo la fine della tradizione orale, il ricordo di chi non ha mai saputo scrivere.
Di Chamoiseau la casa editrice Il maestrale pubblica ora, nella traduzione di Paola Ghinelli, Il vecchio schiavo e il molosso, un breve romanzo in sei tempi, detti "cadenze", che reca in esergo la domanda fatale: «il mondo ha un´intenzione?». E´ la storia della fuga di un vecchio schiavo dietro il quale il padrone della piantagione – chissà? Forse due secoli fa – scatena un molosso addestrato alla caccia dei negri marron. Il tracciato della corsa dà luogo, nel racconto, come in Texaco, a una fantasmagoria di invenzioni linguistiche, ma sarebbe meglio dire poetiche perché, nonostante tutto, "passano" agevolmente come immagini da una lingua a un´altra; e gli incidenti, tutto ciò che nasce negli inciampi e dà luogo alla peripezia, sono un´allegoria degli stati di coscienza di un anonimo negro, un "nessuno", che diventa "qualcuno". Che diventa, emblematicamente, ciò che non era mai stato: sé stesso.
Il procedimento narrativo di Il vecchio schiavo e il molosso è, nella sostanza, il medesimo che in Texaco. Un libro a suo tempo tradotto con perizia da Sergio Atzeni per Einaudi e ora ripreso nei tascabili de Il maestrale; e per il quale ogni occasione è buona – anche questa – per raccomandarne, a chi non l´avesse già fatto, la lettura.
La musa di Chamoiseau è la stessa musa creola che ha dettato buona parte dell´opera di Derek Walcott. Una musa che pensa in patois e che si esprime nell´inglese e nel francese raffinatissimi di due scrittori che sono tra i padri fondatori di una letteraratura specificamente caraibica ma che hanno imparato il mestiere nelle botteghe, diciamo così, dei migliori artigiani del loro tempo. Appartengono a due generazioni diverse, Walcott e Chamoiseau (rispettivamente nati nel 1930 e nel 1952), in due isole che si affacciano l´una all´altra, ma hanno in comune, tra tutti, la propensione a raffigurare come protagonisti – non come antieroi ma come eroi veri e propri – i loro personaggi. Perché la loro intenzione è quella di costringerci a prenderli sul serio, con le loro magliette di poliestere e le loro capanne che si sono trasformate in baracche messe insieme con materiale di recupero – legname da imballaggio e lastre di vetro-cemento – ma senza per questo farne dei portavoci di un discorso ideologico. E con, invece, la ferma intenzione di non lasciare che vengano derisi come personaggi "bassi" o che siano usati come strumenti per parlare d´altro. Di astrazioni, programmi e proclami, come sempre importati dai centri metropolitani dove tutti la sanno fin troppo lunga.
Insomma due bei tipi, questi scrittori. Capaci, tanto per sfottere – ed è capitato! – di passare davanti a una cattedrale senza battere ciglio, e anzi aggiungendo: «Ce le abbiamo anche noi le volte ad arco acuto, e sono anche più grandi: per vederle basta percorrere una strada in una foresta di bambù e guardare in alto».
Luigi Sampietro

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