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Il difficile viaggio alla disperata ricerca di quel che non c´è

Press review | La Nuova Sardegna | Mon, 28 April 2008
Al suo terzo romanzo, «Il giardino non esiste», edito come gli altri da Il Maestrale, Alberto Capitta si conferma narratore valente e spericolato. Per certi tratti può sembrare che egli abbia qualcosa in comune con scrittori sardi oggi di gran moda, come Niffoi (in abiti barbaricini) o la Agus (in abiti cagliaritani), per la comune propensione al ´realismo magico´ delle loro storie - o al ´real meraviglioso´, come lo chiamava definendo in tal modo e per primo tutta una storia passata e a venire della letteratura latino-americana il grande Alejo Carpentier, a partire dai suoi stessi, bellissimi romanzi (I passi perduti, Il regno di questo mondo, Guerra del tempo... ben più alti e ambiziosi delle loro mille derivazioni alla Garcia Marquez e imitatori). Ma i suoi maestri non mi pare siano da cercare in un continente lontano, bensì in una tradizione favolistica molto italiana, e in certe ardite variazioni che appartengono a un nostro filone letterario, particolarmente presente negli anni venti e trenta del secolo scorso: dal Bontempelli «dei Miracoli» al Loria di «Il cieco e la bellona», con sfondi, quando più oscuri, vagamente landolfiani, e, più vicino a noi, certamente la Morante e soprattutto la Ortese della grande trilogia fantastica, ma senza l´ampiezza della loro visionarietà profetica, insieme etica e poetica. La vivacità e vitalità dell´invenzione capittiana, non mette forse abbastanza a fuoco, almeno in questo terzo romanzo che ci sembra peraltro molto più ambizioso dei precedenti come è giusto che sia, proprio questa tensione: ricco di poesia, e di quella vera, la sua profondità e necessità etica non si precisano, sia pure in sottotono, come se l´autore si lasciasse travolgere dalla ricchezza delle proprie invenzioni, come se si lasciasse irretire dalle sue stesse immagini e dai suoi personaggi e si lasciasse guidare dal flusso dell´invenzione piuttosto che guidarlo, e magari finalizzarlo. Troppe sono le immagini, i piccoli eventi bizzarri e conturbanti e le loro diramazioni, le strade che si bloccano e quelle dei ritorni dentro una formulazione più tradizionale di ascesa e caduta di una famiglia e semmai di ogni vita. Capitta non insiste mai sulla grande storia, che resta del tutto sullo sfondo in anni che si presume siano i quaranta, cinquanta o sessanta dello scorso secolo e in una città che si presume essere Sassari, mirabilmente deformata e come ingigantita dalla fantasia dell´autore. Il filo, pur divagante, che reggeva le precedenti narrazioni di Capitta, pare qui muoversi attorno alla città, alla vecchia casa prima agitatissima e poi semideserta e rovinata e alla grande drogheria piena di profumi e soprattutto dell´aroma del caffè tostato, che accolgono per la massima parte del romanzo i suoi protagonisti, piuttosto che all´Isola che la contiene. Solo una parte del romanzo, che è certo la più ariosa e la più pacificata, sembra appartenere al Capitta vagabondo e aperto - un dedalo di natura e non di vicoli e piazze - delle due opere precedenti, ed è quella marina attorno al bel personaggio della zia Olga che parla tramite un buco nella gola. Un capitolo di vacanza nelle difficoltà della vita, questo, e che è di serenità e di idillio per la piccola protagonista Carmen che la matrigna Flora, pretendendo farla guarire dall´epilessia, ha fatto operare di lobotomia al cervello, e che vi intreccia un gratificante rapporto d´anime infantile e asessuato con un giovane ritardato rimasto all´età mentale di otto anni. Il romanzo racconta la storia del mercante Romeo Scalas, della figlia di primo letto Carmen, della seconda moglie di Romeo, Flora Merella che si atteggia a borghese e a spagnola, dei loro piccoli gemelli e del contorno di amicizie e servitù dal quale alla fine spiccherà Innocenza, la ragazza che emigra e si fa amante di un ladro e ladra ella stessa e che poi chiuderà il cerchio della decadenza assieme a Flora e a Carmen in un trio di strambe e vecchie sopravviventi e nella scoperta di Carmen che «il giardino» suo rifugio d´infanzia semplicemente «non esiste». Che «fuori del limbo non v´è eliso», come avrebbe detto Elsa Morante. I suoi fulcri sono la morte dei due gemelli, che l´autore tiene a lungo nel mistero, uccisi per caso dal padre in una partita di caccia, e la lobotomia di Carmen: la fine tragica dell´infanzia, anche metaforica, terribile, e l´apertura e scoperta dell´ingiustizia e del dolore insiti in ogni esistenza, la condanna all´ impossibilità d´ogni pienezza, di ogni risolta, felice maturità. Questo però non esclude gli sprazzi di euforia (che Capitta sa narrare bene come pochi) e di allegria, di dimenticanza oppure di più piena comunicazione con persone e piante e animali, nel ricordo di una paradiso terrestre dell´infanzia dell´uomo e del mondo dal quale si viene sempre cacciati, e per sempre. Il romanzo conclude sull´ultima decadenza, sulla coscienza dell´assenza del giardino, e su un ultimo sberleffo tutto al femminile verso un maschile che non c´è - e che, quando è incarnato in un debole e brav´uomo come Romeo Scalas è, pur se involontariamente, quello di un padre assassino dei suoi stessi figli (i maschi), mentre è Flora a intervenire drasticamente sulla vita della figliastra, punita dalla morte dei figli e riconciliata alla fine con la figliastra non amata e con una serva che trattava da serva. Il giardino non esiste è un romanzo dove sono le donne a riempire la scena, quattro protagoniste difficilmente dimenticabili, e che sono più degli archetipi che dei personaggi, fiabeschi e concentrici. Che Capitta non sembri mai controllare pienamente la sua immaginazione, che non sembri ´costruire´ il suo romanzo secondo regole più o meno canoniche, è insieme un limite e un pregio. Su tanta materia altri avrebbe facilmente confezionato un grande romanzo di sicuro successo, ma egli non ci sembra tanto un perfetto narratore (certamente non un narratore-venditore) quanto piuttosto un rabdomante alla ricerca della pietra filosofale del significante - intimo e nascosto - di ogni umana vicenda, o un medium che evoca per noi, oltre le apparenze della cronaca e di ogni storia detta comune, il mistero del dolore - tragedia o malinconia della sconfitta dei sogni - che è di ogni cacciata dall´Eden. Quel giardino che, semplicemente, «non esiste».

Goffredo Fofi

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