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Niffoi, lo scrittore rapace

Rassegna stampa | La Nuova Sardegna | Mer, 29 Ottobre 2003
Astori e scrittori di Barbagia. Scritture rapaci, che volano alte. Che scrutano i più bassi anfratti, le più riposte piaghe della terra, per calarsi come folgori a ghermire la preda, e subito risalire a dominare gli spazi. Proprio come fa lo stile affilato, quando fruga nelle viscere, eppure in un baleno se ne distingue e se ne distacca. Che resta pulito e lucente, nel momento stesso in cui si contamina. Questa netta sensazione, insieme di «rapinosità» e di «purovisibilità», ci viene comunicata dalla scrittura narrativa di Salvatore Niffoi. A suo modo Niffoi, un po´ come Mario Delitala o come Costantino Nivola, è uno di quegli oranesi di genio che conoscono l´arte e il segreto dell´unghiata rivelatoria, del tratto incisivo che scava con la luce perforante della visione. Con il loro espressionismo di testa più che di petto, razionalmente vigile, fiondano lo sguardo nelle pieghe profonde dell´identità.
Niffoi ha iniziato da scrittore la sua discesa agli inferi alcuni anni fa, con «Il viaggio degli inganni» (Il Maestrale, 1998): un «romanzo di formazione» di lancinante autobiografia; il romanzo di un «rivoluzionario», se per «rivoluzione» intendiamo eminentemente la rivolta contro il Padre, ma altresì, con metafora astronomica, il moto di rivoluzione celeste: che si conclude nel ritorno all´origine.
Accadeva con Niffoi qualcosa di simile a quanto era avvenuto nella vicenda letteraria di Gavino Ledda e di «Padre padrone». Il figlio che si ribella alla volontà e alla legge paterne. Ma qui il passo andava oltre: il padre veniva trascinato in giudizio e processato. Singolare davvero questa tendenza alla «rivoluzione» simbolica, insegretitasi per così dire nella psicologia dello scrittore sardo delle «zone interne» della nostra epoca.
Il cammino del romanzo di formazione di Niffoi - così come romanzo di formazione era il romanzo di Ledda, al pari di tanti altri esempi di cui è significativamente prodiga la letteratura sarda del nostro secolo - il cammino di questo «viaggio degli inganni» - dicevamo - conduceva poi l´autore a recuperare l´accettazione storica del padre, a introiettarne e metabolizzarne l´immagine: condividendone la colpa. Cammino del resto parallelo a quello di Ledda, ma forse qui anche più consapevolmente consequenziale.
Niffoi infatti non si compiaceva narcisisticamente nella sua hybris, ma la proiettava all´esterno: la confrontava col principio di realtà, traducendola in una raffigurazione del personaggio. Insomma, procedeva dall´autobiografia alla biografia, dalla soggettivismo all´oggettività.
Chiaramente, questo non vuole dire che l´autore rinunciasse al suo demonico «culto dell´io» - che sappiamo bene essere connaturato alla stessa funzione artistica - ma significa semplicemente che la prospettiva adesso mutava: spostandosi dall´io all´altro. Dove peraltro l´io stesso non si annullava, bensì si travestiva.
Comparivano così tutti i successivi personaggi «niffoiani»: «Il postino di Piracherfa» (2000), «Cristolu» (2001), con tutta la loro «corte dei miracoli» e il loro «pandemonio» identitario. E ora, in un crescendo, in una moltiplicazione delle figure che sembra nascondere qualche aspetto di morbosità, cioè a dire di compulsività creativa, quasi che l´autore non sapesse fare a meno di questa mania del «catalogo», ecco dunque col nuovo romanzo una vera e propria «galleria» di «creature», di «personaggi», che ha del prodigioso nella sua variata identità ovvero identica varietà.
Si tratta di storie e situazioni esistenziali al limite dell´assurdo e dell´eccesso, come sempre accade in Niffoi, ghermite e proiettate per così dire in una formula narrativa. Ma questa volta condensate in un simbolo quasi anatomico-antropologico, in un cifra creaturale che le rende paradigmatiche e seriali.
Il luogo della scena capitale è un paese contadino di qualche profondo e atipico sud, dove si pratica una strana regola del suicidio. Un suicidio per autoimpiccagione, che si compie quando arriva il momento prestabilito: anzi quando giunge una sorta di chiamata di correo della «disarmonia prestabilita».
Questa galleria rusticana di «appesi» possiede il fascino tremendo delle «teorie» genialmente demoniche. E´ un mondo, quello degli impiccati di Niffoi e della sua «ballade des pendus», che travalica le barriere della vita locale e provinciale, per sconfinare nell´universale orizzonte dei simboli. Simboli e insieme realtà corporali, esistenziali.
Le figure, anzi le vittime, di questa scena capitale sono personaggi anonimi, ma al tempo stesso esemplari di una condizione umana dove si è spezzato il legame con la logica biologica, in qualche oscura maniera. Dove a un certo istante, imprevedibile ma prestabilito, scatta l´impulso di una negazione assoluta, una sorta di logica autopunitiva, di follia tanatologica. Tutta l´opera di Niffoi è un molteplice e insieme univoco interrogativo sulla vita e sulla morte. O se preferite sull´identità. Che cosa è la nostra semenza? Il nostro «principium individuationis»? Questo nostro attraversare l´umano destino?
C´è in siffatto «narratore nato» un rapporto estremistico con la dimensione esistenziale, che ti fa assomigliare il senso della sua scrittura narrativa a una sorta di corsa verso l´annientamento. E´ nichilismo tutto ciò? E´ difficile rispondere con un sì o con un no a una simile domanda. Giacché lo stile della narrazione di Niffoi e la sua stessa poetica - dove si mescolano in un confluenza realistica forte l´istanza cognitiva e l´istanza mimetica - stanno lì a dimostrare che l´intelligenza intuitiva ed espressiva è una virtù che l´autore possiede in grado notevole, con la quale si fa strada e si fa luce nel magma della realtà, nel buio dell´inconscio popolato di fantasmi.
Inoltre in lui si riscontra una comprensione simpatetica nei confronti dei propri personaggi, pur nella crudezza spesso brutale e nella carnalità e materialità delle immagini, la quale riscatta per così dire il fondo esistenziale del loro «essere gettati» nel mondo, attraverso il processo, sia pure inconsapevole, del loro stesso «essere-per-la-morte».
D´altra parte il mondo abbrutito in cui essi vivono e si muovono, la loro stessa colpa di vivere, sembrano non aprire prospettive e varchi a speranze di sorta. La loro dimensione quotidiana e abituale è una disperata vitalità che brucia se stessa. La vita non è che dissipazione di un carburante energetico destinato ad esaurirsi in breve tempo, nel disordine passionale, nell´eccesso. In una parola, nel «caos». Dinanzi al quale sta il mistero ostile di una natura e di una realtà anch´esse caotiche, se non in qualche maniera «infernali». E «infernale» - sia pure in un senso mitico-simbolico piuttosto che mistico-religioso - appare il motore stesso dell´intero universo niffoiano. In tale inferno nascono alla dimensione scenica, alla realtà poetica, le creature di Niffoi, i suoi personaggi folli ed esclusi, selvaggi e tragici. E la loro è una solitudine erotica e carnale, oltre che metafisica.
Ma, pur riscontrandosi nelle pagine «caotiche» e «demoniache» dello scrittore la traccia di certa letteratura realistica di genere popolare, e perfino del fumetto - oltre che, beninteso, l´influenza e l´interferenza della grande letteratura espressionistica contemporanea, europea e americana - la scrittura di Niffoi non appare però tributaria dei generi «pulp», «tremendistico» o «cannibalico» di un filone volgarmente «giallo-nero», oggi tanto di moda: né sotto la denominazione del prodotto di «consumo» né sotto quella della comunicazione cosiddetta «alternativa».
Viceversa, la narrativa di Niffoi s´inserisce tendenzialmente nella linea alta della migliore tradizione sardo-barbaricina: quella cioè che fa capo al pessimismo storico e al realismo coscienziale di Salvatore Satta. Dalla quale sembrano diramarsi due strade: quella orientata alla costruzione del romanzo «giallo» di tipo «etnico-dialettal-manieristico», rappresentata da Marcello Fois; e quella praticata dal romanzo espressionistico d´impronta psico-antropologica, preferita dal nostro autore.
Naturalmente ci rendiamo conto dell´insufficienza di simili categorie definitorie a racchiudere in maniera compiuta ed esaustiva il senso di un´opera complessa, pur nell´apparente «mediocritas» della sua scala topografica, come quella di cui ci occupiamo: un romanzo cioè a fabulazione policentrica, composto di tanti racconti che si compendiano in una sorta di polittico narrativo, di corale poematico in prosa.
Da questo punto di vista, la struttura tematica della «Leggenda di Redenta Tiria» e il suo clinamen stilistico possono a buon diritto ricordarci il mondo scabro e drammaticamente epigrammatico dell´«Antologia di Spoon River», di Edgar Lee Masters, autore e testo singolarmente prossimali alla sensibilità e al gusto di famiglia, per così dire, degli scrittori sardi.
Una raccomandazione - se è lecito considerare talvolta la funzione recensiva anche come sede di qualche suggerimento critico - vorremmo a questo punto indirizzare ai lettori di questo romanzo, che tra breve uscirà pure nella traduzione francese (mentre già l´editoria tedesca sembra vivamente interessarsi all´opera inedita della scrittore oranese). Che cioè essi non si lascino magari fuorviare a prima vista dal tono apparentemente fumettistico (ad esempio da classico fumetto western) di questi bozzetti «selvatici» e «insulari», un po´ agresti e un po´ salmastri.
Il loro è in realtà un registro da basso «comico», tendente al grottesco e virante sul pessimismo tragico. Scenari e ambientazione, i quali in superficie sembrano eterogenei e incongruenti, ma che nel fondo sono destinali e lapidari, riescono qui ad attingere, anche al di là delle proprie connotazioni etnico-simboliche, e in virtù dei loro sconfinamenti, la dimensione dell´«exemplum»; e ad esprimere, attraverso la straordinaria cifra stilistica dello scrittore, una sorta di stato d´innocenza come dopo il peccato originale. Quell´innocenza che si chiama, a ben sentire, soltanto e semplicemente desiderio elementare e universale d´amare e di essere amati e, congiunto in qualche modo con esso, anelito del buon morire. Sogni che bucano la solitudine dell´essere. Varchi dell´anima.
E´ proprio qui che ripara, fra questi interstizi, l´unico sospiro d´umanità che resta di tante vite recise, anzi appese e strangolate. Sospiro, che lo scrittore «invisibile» - giacché così deve essere per davvero lo scrittore autenticamente degno di tale nome, secondo Salvatore Niffoi - raccoglie lungo il bordo del cammino, al modo dei fiori cinerari: con cui comporre un´antologia epigrafica personale da un paese sardo innominato.
Astori e scrittori, dicevamo all´inizio. Falchi pellegrini della memoria e della pietà itinerante, e nondimeno persistente, avvistate sopra i deserti campi dell´irripetibile - e interminata - leggenda di Redenta Tiria. Che redime la «malapianta» della morte: come recita appunto il suo nome.

Leandro Muoni


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