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Troppo facile classificarla come la nuova Cristiane F. dello “zoo di Berlino”. In realtà Monica Aschieri, in questo libro-diario che ripercorre la sua vita dal 1982 al 2003, racconta più un viaggio interiore che una nuda cronaca di droga che segnò la sua vita per vent’anni.
Proveniente da una famiglia “bene” di Cagliari, a 19 anni già madre di una bambina che verrà presto affidata ai genitori, girovaga per la città e l’Italia infiammata dall’astinenza e dal bisogno del metadone, affronta tentativi di recupero e struggenti e problematici rapporti con la famiglia d’origine. Tornata in Sardegna, Monica entra definitivamente in un giro di commercio e soprattutto di consumo di eroina e altre sostanze che la renderanno completamente schiava (tremende ma necessarie le descrizioni della devastazione fisica) e disposta anche a gestire il traffico quando il suo compagno, boss del quartiere CEP affiliato alla malavita nazionale, finisce in carcere.
I temi fondamentali del diario sono quelli classici della perdizione-redenzione: la discesa agli inferi, i rapporti di grande problematicità con la famiglia e con il padre descritti impietosamente, la continua richiesta di amore e considerazione che mina le fondamenta della sua personalità, il collasso fisico e psicologico e l’incontro con Dio e un’altra vita possibile. In tutto questo -una girandola di buchi, denaro, tentativi di disintossicazione, sangue e promesse non mantenute- le uniche cose buone sono la figlia lontana e il suo compagno, vera bussola della sua vita e personaggio complesso, fatto di luci e ombre.
La forma diaristica accentua il realismo della narrazione, ma rende difficoltosa la comprensione degli eventi: forse, sarebbe stata utile un’ appendice biografica vera e propria che aiutasse a collocare meglio i fatti. Anche così, però, il libro è sconvolgente e sincero, non soltanto una storia di droga, ma anche quella di un grande amore che dura una vita intera, interrotto soltanto dalla morte. Fortunatamente, il processo di perdizione si conclude con una lenta redenzione e persino con un avvicinamento alla fede che la porta a fare i conti con il dolore sofferto e provocato alla famiglia.
L’autrice, oggi disintossicata, e la sua famiglia sono molto conosciuti e il rischio è che la curiosità suscitata da una storia così forte e realistica, che oltretutto racconta una Cagliari “parallela”, metta in ombra il messaggio che, forse inconsapevolmente, la Aschieri vuole trasmettere: le persone non sono e non è possibile che siano soltanto “buone” e “giuste” o, all’opposto, solo “cattive” e la discesa all’inferno può avere anche un ritorno.
“Vieni a trovarmi anche il prossimo anno e, quando sarai nuovamente nel tuo Paese, parla bene della Sardegna!”. Sono le parole con le quali quasi ogni sardo si accomiata dal proprio ospite forestiero in partenza.
Il sentimento di queste parole colpisce Thomas Münster (1912-1983), giovane soldato tedesco che, per uno strano destino, incontra la Sardegna. L'aereo con cui sta lasciando la campagna d'Africa, durante la seconda guerra mondiale, precipita sulle montagne di Baunei. Miracolosamente egli si salva ma, colpito dalla malaria, è costretto a soggiornare nell'isola. Terminata la guerra, si stabilisce a Monaco, diviene ingegnere, studia storia dell'arte ed entra a far parte con i più famosi Grass, Böll, Johnson e Enzensberger del famoso Gruppe 1947, fondato da Richter.
Nei primi anni '50 ritorna in Sardegna più volte, e per lunghe permanenze, perché ora è affetto da ben altro male, quel “mal di Sardegna”, quel profondo sentimento di attrazione che gli si è insinuato dentro. Non a caso è noto il detto “Chi va in Sardegna, rimane in Sardegna!”.
Thomas Münster riporta le impressioni di questi suoi viaggi nell'isola in un diario, pubblicato in Germania nel 1958, a cui dà per titolo proprio quelle parole “Parlane bene”. Una frase che è la richiesta di un messaggio d'amore da portare oltremare, un'invocazione per rendere giustizia a un'isola, spesso, maltrattata e non compresa da visitatori frettolosi e superficiali ma, anche, vittima di una lunga tradizione di opinioni negative scaturite da lontane vicende storiche che l'autore ripercorre. I Romani, pur avendo assoggettato tutto il mondo allora conosciuto, non riuscirono, nonostante i poderosi eserciti impiegati, a penetrare quella fascia di terra sarda che è l'area montuosa del Gennargentu. Questa regione, battezzata dagli stessi Romani “Barbaria”, perché inconquistabile, finì per rappresentare una spina nel cuore dell'Impero.
Come la volpe della favola di Esopo “La volpe e l'uva”, essi iniziarono a svilire ciò che non erano in grado di soggiogare e coniarono persino il modo di dire “senza valore come un Sardo”. Secondo la versione data dai Romani, la Barbaria, l'attuale Barbagia, era un territorio del tutto privo di valore sui cui campi anziché messi crescevano pietre, ed i cui abitanti non servivano a niente e non si potevano utilizzare neppure come schiavi. Fu questa, secondo l'autore, la fonte di tutte le future leggende sarde e fu da allora che nella penisola si radicò la convinzione che la Sardegna fosse sinonimo di paura e di mistero. Il viaggiatore tedesco osserva l'Isola con gli occhi disincantati del cittadino europeo e ci racconta una Sardegna di oltre mezzo secolo fa che, a dispetto di tutte le leggende di sangue e violenza, è abitata da uno dei popoli più pacifici del pianeta.
Ogni sardo è disposto ad aiutare l'ospite forestiero, pure a discapito di se stesso, non esistono ladri e il banditismo è una forma di protesta politica al di fuori di un'indole malvagia. “Parlane bene” è un prezioso documento di quella Sardegna del dopoguerra, dove non è ancora del tutto scomparsa la figura del padre-pastore, figura regale di gran dignità a capo di una struttura familiare allargata, composta pure dai servi. È la terra dove si può ancora incontrare qualcuno che vive disinvoltamente in una grotta, con porta e finestre. L'autore racconta, stupito, la sua esperienza a Perfugas dove sei famiglie vivono all'interno di una cavità rocciosa e, persino, di un uomo che abita in una grotta sepolcrale punica, con un bel televisore e, pure, contrassegnata da un numero civico. E, con maggior sorpresa, osserva che, anche a Cagliari, e non sempre per indigenza, qualcuno ha scelto di abitare la necropoli punica di Tuvixeddu.
Münster cerca di capire la mentalità di questa gente che parla con orgoglio della propria casa di roccia, ereditata dai padri, da tramandare ai figli e convinti che nessun architetto possa costruirgliene una migliore e, libero da fuorvianti pregiudizi, descrive con brio questi aspetti curiosi. Ma accanto all'isolano che non vuole abbandonare antichi modi di vivere c'è il cagliaritano moderno che la sera ama passeggiare sotto i portici della via Roma, illuminati da caffè e negozi. Cagliari è, anche, la città dalla splendida spiaggia sabbiosa, gremita, in estate, di bagnanti annoiati che ascoltano la radio o sorseggiano bibite, al riparo dal sole sotto variopinti ombrelloni o all'interno dei numerosi casotti di legno. Al Poetto, da giugno ad agosto, l'alta società fa la bella vita nei rinomati stabilimenti balneari, vestita con abiti da spiaggia all'ultima moda, dove regna un'aria di noiosa mondanità che si conclude con serate danzanti.
L'autore percorre quasi tutta l'Isola, sosta nelle varie località, indugia nelle campagne e, con la passione che pervade chi sceglie per amore una patria d'elezione, si sofferma sugli aspetti della natura, sui caratteri delle genti paesane, coglie tradizioni, consuetudini e motivi storici, che gli permettono, poi, di ritrarre nel suo diario, in maniera affettuosa e quasi divertente, quella Sardegna antica e moderna degli anni '50.